Avevo nove anni e per me fu un secchiello d’acqua gelata, di quelli che ti danno una sveglia costringendoti a piombare in una realtà fino ad allora sconosciuta. Per me il calcio era (e lo è ancora, per molti versi), gioco, spensieratezza, tifo, passione, partecipazione, sfottò, goliardia. Anche ansia (di vittoria) e paura (di sconfitta), ma soprattutto un divertimento. Quella domenica del 1979 morì Vincenzo Paparelli e per me fu lo schiaffo che ti fa riconsiderare l’esistenza. Venne ucciso a 32 anni da un razzo lanciato dalla curva Sud dello stadio Olimpico; lui era con la moglie nella curva Nord, in attesa di Roma-Lazio. Aveva ricevuto l’abbonamento dal fratello laziale, e scelto un posto diverso da quello che avrebbe dovuto occupare, per questione di panchette bagnate dalla pioggia. Insomma, tanto fece che s’accomodò nel punto esatto dove sarebbe atterrato il razzo che l’avrebbe ucciso. Era stato sparato da un tifoso della Roma che, ironia della sorte, sarebbe morto alla stessa età dell’uomo di cui fu carnefice.
Ero un bambino, io. Il “caso Paparelli” non l’ho mai dimenticato. E’ una di quelle cose che segnano, un punto di svolta, un evento spartiacque, come l’attentato alle Torri Gemelle, ad esempio. Per me è come ci fosse un prima e un dopo. Il piccolo tifoso si è trovato catapultato, appunto, in quel “dopo” costellato da altre tragedie, macchie indelebili che ci portiamo appresso senza trovare mai una giustificazione plausibile.