Ho dato un volto alla fatalità (poi ognuno la chiami come vuole) in un giorno preciso di trent’anni fa. Il giorno in cui sono morti Marco Abrardo e Beppe Alcamo. Miei amici, miei compagni di pallone, quello biondo e quello moro, il mancino e quello che voleva esserlo perché lo era Maradona. Ero con loro quella sera. C’era, come ci sarebbe poi stata sempre nel periodo, la festa di Quattordio. Al rientro, l’incidente. Beppe non doveva essere in auto con Marco, ma ha chiesto di andare con lui, forse regalando la vita a chi gli ha ceduto il posto. Fatalità. Erano in cinque sul Mercedes: gli altri tre sono rimasti feriti, chi più chi meno. Chi era davanti ha ringraziato il destino che le ha fatto allacciare la cintura poco prima (non c’era l’obbligo, ai tempi). Fatalità, appunto.  Conservo una serie di ricordi di quella sera, perché ci sono precisi momenti della vita in cui è impossibile dimenticarsi   dove si era, cosa si faceva e   con chi.  Io a Marco e a Beppe penso ogni volta che, andando o tornando da Felizzano, arrivo a quella curva.  E mi dico sempre che tra l’allegria e la tragedia può intercorrere anche solo  una frazione di secondo.  Sono passati trent’anni e mi sembra ieri, quando avevamo il gruppo, ci si divertiva con poco, Marco era forte di testa e Beppe si fasciava la caviglia destra, immobilizzandola,  per essere costretto a calciare di mancino, come il ‘suo’ Dieguito. Per loro, con Massimo Faletti, scrissi una canzone, cantata da Paolo Ratti: non so se c’è ancora la  musicassetta di allora, ma nella mia mente è ancora incisa.

Su, cara gente,  cerchiamo di passarcela bene, per quello che ci è consentito.

 

(Pubblico una foto di Fubine. Che per noi era il centro del mondo)