Ho avuto la fortuna di conoscere abbastanza bene Sergio Viganò in quanto autore di una biografia che lui, inizialmente, guardava con diffidenza (l’idea fu mia), salvo poi affezionarsi a un lavoro che aveva la sola pretesa di raccontare uno dei protagonisti del calcio italiano, benché ai margini (d’altronde era un massaggiatore-fisioterapista, non il centravanti da 30 gol a stagione).
Di Sergio Viganò, classe 1941, morto ieri, potrei raccontare molto, dal suo carattere talvolta ruvido all’innegabile bontà d’animo che lo portava a riservare alla “vecchietta del paese” le medesime attenzioni che aveva per il campione del pallone.
Viganò è stato un professionista straordinario diventato tale non per doti innate (anche suo padre era massaggiatore, però), ma per studio, applicazione, aggiornamento continuo. E’ stato l’esempio di come la fortuna bisogna saperla cogliere: aver conosciuto Roberto Mancini è stato una questione di buona sorte, ma se poi ha seguito il Mancio in molte tappe della sua carriera (di calciatore e di allenatore) è per l’eccezionale capacità di trattare i muscoli.
Nel libro ‘Le mani del mago’, uscito per Bradipolibri nel 2020 (in pieno Covid…), ho cercato di raccontare il Viganò dei campioni e quello della gente comune, il fisioterapista che ha lavorato a Manchester e quello che ha scelto Lu Monferrato, il massaggiatore passato da Papa Francesco, in quanto ristorante luese, a papa Giovanni Paolo II, in quanto pontefice.
Con Viganò (i funerali lunedì alle 10.30 a Lu), abbiamo perso un protagonista che ho cercato di raccontare al meglio, col contributo di chi (da Mancini a Vialli) l’ha conosciuto molto meglio di me.